La vita è possibile solamente se è attivatrice della conquista degli spazi di vitalità. Ogni qualvolta che la vita si mette in un atteggiamento passivo, diventa rinunciataria. Questo significa che dobbiamo fare una verifica dentro di noi, sulla resurrezione, per capire se è una realtà che subiamo o che agiamo. Cogliere della resurrezione l’aspetto attivo diventa passivo per noi. Noi ci dobbiamo incontrare a mezza strada, cioè la resurrezione è un fatto che riguarda non solamente noi questa sera perché è un problema di senso dell’antropologia. L’antropologia è in stretta relazione con l’autotrascendimento perché la persona, in quanto tale, è una realtà che si deve trascendere, si deve superare, è una realtà intuitiva, astrattiva e operativa.
Allora, noi dobbiamo cercare di costruire la nostra resurrezione come senso dell’antropologia prescindendo adesso dal modello rivelato, perché i testi scritti sono complessi e contradditori per cui se leggiamo il Vangelo alla lettera, a volte ci può capitare di non riuscire a capire bene quello che dice e più si legge e più ci si confonde. Per noi che abbiamo una mentalità storica, la modalità espressiva è coincidente con quella reale. Per gli antichi, invece, la modalità espressiva era statica. La stessa modalità veniva usata per dire cose diverse.
Ora, noi possiamo accogliere la resurrezione senza leggere? Ebbene si, perché la resurrezione è un modello che noi non possiamo elaborare con la nostra razionalità, in quanto è una dimensione esperienziale, non è una dimensione conoscitiva perché non può essere generata nella nostra mente in quanto la mente passa dalla percezione all’intuizione, al capire e al comprendere. Questa realtà non è percepibile per quel che è, in quanto nella fase proiettiva, se leggo, io colgo quello che sono predisposto a leggere e non quel che è.
Allora la resurrezione di Cristo è tale se sono io che lo faccio risorgere nella mia realtà antropologica, cioè nella mia dimensione di autotrascendimento nel momento in cui io, in quanto persona, sono una realtà finalizzata ad andare oltre quel che sono perché ho la possibilità di ideare, di percepire, ideare astraendo ed operare.
L’operare è la risultante di quello che ho percepito precedentemente, che ho elaborato e che ho rimesso in gioco. Ho la mia dimensione di costruzione e di progresso non solo in campo tecnologico (che non sempre è progressivo). Il progresso è la funzione della realtà umana alla totalità dell’umanità che è enucleata, è "in nuce" non solo ora, ma era "in nuce" e lo sarà e si esprimerà molto progressivamente cercando nella multiformità delle manifestazioni, di mettere in essere quello che è criptato nell’essenziale. Cioè, ognuno di noi racchiude in sé una potenzialità di cui non si rende conto se non ex-post, dopo aver fatto delle cose.
Ognuno di noi dà delle manifestazioni di sé molto variabili. La nostra unica realtà si moltiplica in mille interpretazioni. L’unità di un personaggio molto noto all’umanità intera, di nome Gesù Cristo, si moltiplica nella percezione di ognuno che elabora, astrae ed opera, diventando un "cristiano", come prolungamento, come pleroma, come completamento, prendendo in considerazione un'espressione dell’apostolo Paolo: "Adempio in me ciò che manca alla passione di Cristo" (Col. 1,24), come se la passione di Cristo potesse essere mancante di qualcosa.
Dire: "Adempio in me" significa che io, nella mia dimensione esperienziale, colgo l'annuncio: E' risorto!".
Cosa significa Cristo risorto? Che cosa ha trovato chi è andato al sepolcro? Il sepolcro vuoto! La resurrezione non è chiara, si presenta in mille maniere, così diversificata, per cui non la si riesce a capire bene...
Allora, io a che cosa devo credere: è risorto o non è risorto Gesù Cristo? E se non è risorto, che senso ha tutta l’antropologia?
Se per un attimo immaginiamo che Gesù non sia risorto, la storia dell’umanità si troverebbe ad avere una sorta d’impantanamento perché non avrebbe il suo risvolto realizzativo che è la tensione di apertura alla felicità.
Il movimento non si attiva per andare verso il peggio. Se abbiamo fame, per esempio, ci muoviamo per andare verso il cibo che ci dà la possibilità della sazietà, che ci toglie il morso della fame. Ogni qualvolta l’uomo si muove, lo fa, in un modo o in un altro, se prevede di andare verso il meglio anche quando il movimento può sembrare un sacrificio (per esempio, una mamma che fa di tutto per il bene dei figli, un laureando che deve studiare molto, ecc.) perché è finalizzato a stare e far stare meglio.
Negli ultimi tempi il movimento non è legato alla finalizzazione, ma è dovuto alla pressione esterna perché il processo di massificazione non da più, alle singole persone, l’opportunità di entrare a far parte di una comunità che collega le finalità e le potenzia. Il collegamento delle finalità è, infatti, un potenziamento della comunità. La massificazione è pilotata dal di fuori e svilisce la motivazione. Quanto più dal di fuori viene spinta la massa, tanto meno i singoli si attivano per esprimere la propria identità, da cui scaturisce l’idioma che diventa prassi per cui noi percepiamo, astraiamo, elaboriamo e facciamo.
L’azione è una risposta alla elaborazione dopo aver fatto l’astrazione dal che si evince che la persona è una realtà finalizzata, quindi si autotrascende perché il raggiungimento del fine è sempre al di fuori, dentro non c’è, cioè è un andare verso…
La motivazione è il "moto all’azione" e presuppone un autotrascendimento. Allora, quando noi abbiamo un approccio al Cristo risorto, la cui testimonianza è un sepolcro vuoto, il vuoto richiede il riempimento. Il sepolcro è vuoto perché ogni persona può riempire il vuoto della sua esperienza se ha sperimentato cosa significa, di fronte a una tensione, di fronte a un'esperienza di morte, la possibilità di riprendersi in mano la gestione della propria vita e cambiare completamente.
Se non abbiamo fatto questa esperienza, della resurrezione non possiamo capire di che cosa si tratta. Pensiamo che sia un fatto avvenuto nella storia passata che non ha nessuna incidenza sulla nostra esistenza (e non della vita), perché l’esistere presuppone la vita, ma non è inglobata in essa. L’esistere è l'ex-sistere, è quando io dal di fuori mi considero e mi approprio della realtà che mi appartiene.
Questa appartenenza della mia vita a me è la costituzione della mia esistenza per cui la Pasqua me la fabbrico io, se sono in grado di superare il meccanismo che mi tiene imbrigliato nella tomba, se riesco a rompere la cariosside e a fuoriuscire con la mia novità, appropriandomi del mio essere racchiuso nell'unicità, ma capace di diventare pluralità.
Questa capacità di essere cellula staminale e tutti gli organi; cellula staminale e tutta l’umanità; cellula staminale come erede di una storia passata e propulsione per una storia futura, mi fa entrare a partecipare alla costruzione della resurrezione di Cristo che non è solo la Sua.
Quando Sant’Agostino dice: "Tutto Cristo è capo e corpo", significa che il capo è l’Unigenito Figlio di Dio, il corpo è l’umanità intera. La resurrezione di Cristo, cioè, non è solo la Sua, ma è la resurrezione dell’interezza.
"Adempio in me ciò che manca alla resurrezione di Cristo"... Perché se io non risorgo, sono una cellula mancante all’organismo risorto di Gesù Cristo.
Quanto più io risorgo, tanto più do un incremento alla resurrezione del Cristo totale, ma se mi defilo dalla resurrezione di Cristo totale, la resurrezione di Cristo è monca, perché il punto essenziale dell’uomo è la speranza che implica l’autotrascendimento, il superamento della situazione in cui si sta. Se all’uomo si toglie la speranza, gli si toglie il fine, la quintessenza della sua umanità perché l’uomo è tale in quanto è persona che emette un suono che è l’idioma dopo che si è identificato con il vedere, con la percezione, che sono realtà strettamente correlate tra loro.
Io risorgo se comincio a conoscere profondamente la verità che mi da l’opportunità di accorgermi di me. Quindi, la Pasqua si celebra nell’intimo del proprio essere, quando entrando in me, mi rendo conto che se resto chiuso in me, resto nel sepolcro. Se invece ribalto la pietra che chiude il sepolcro, io ho la mia vita risorta e lascio vuoto il sepolcro.
Quanto più lo lascio, tanto più lo prendo. Sono parole che possono diventare contraddittorie in sé, se non entro, quasi all’improvviso, nell’esperienza del recupero del senso della mia esistenza, dopo essere uscito dal mio mondo ed essermi incontrato con il mondo dell’altro, formando un arco voltaico che ha realizzato all’improvviso la nostra realtà, nella dimensione dell’accoglienza dell’altro.
Ora cerchiamo di entrare in contatto con due persone che fuggivano da Gerusalemme, tenendo presente che Gerusalemme è il punto intorno al quale tutto il Vangelo di Luca (che era medico), viene strutturato e che quindi sacrifica la redazione della finalità che lui si poneva che era appunto quella di presentare la Gerusalemme che parte da lontano, per giungere, invece, a condurre la persona per mano alla Gerusalemme che è dentro di sé, per recuperare la propria resurrezione.
Importa scoprire che sei tu la Gerusalemme che da secoli e secoli si prepara, perché il tuo modello realizzato sul piano genotipico è partito da lontano e si è evoluto fino a darti una capacità introspettiva in modo che nella riflessione intima tu puoi renderti conto della preziosità che esiste in te, che tu puoi esprimere e questa tua espressione è un beneficio per l'umanità intera che procede per risorgere.
Ogni giorno abbiamo una prospettiva di alimentazione e di demolizione. L'alimentazione è la refezione (quel "re" che corrisponde al "ri", è iterativo). Quindi, "refezione" vuol dire: "mi faccio di nuovo", così come "risorgere" significa: "sorgere di nuovo".
Noi, antropologicamente, siamo dei risorti permanenti. La Pasqua è un rifarsi. Quindi, tutto l’essere dell’uomo deve essere per sempre in uno stato di legamento con l’Autore della vita, a contatto con il Vivente, per mischiarsi con Lui nella vita.
Allora la resurrezione di Cristo diventa la consapevolezza di immortalità della persona che è orientata a costruire delle relazioni che si sottraggono al limite di precarietà del tempo e dello spazio che sono due dimensioni di grossa angoscia perché ineluttabili e irreversibili.
L’uomo questa dimensione non la tollera per cui fa di tutto per uscire dall'angoscia ed entrare nella vitalità del movimento. La vita è movimento. Ciò significa che l’uomo non deve trovare una pace statica, ma dinamica. Quindi la refrattarietà statica è il peccato contro la resurrezione.
Allora, io sono chiamato a costruire la resurrezione di Cristo in me perché mi aiuti a farmi cogliere l’essenziale e a liberarmi dalle apparenze e dalla confusione come è accaduto alle donne e ai discepoli per cui non riescono a cogliere l’essenziale della Persona di Cristo e andare oltre al Gesù che erano abituati a vedere e toccare.
La nostra vita ci appartiene solo relativamente perché per noi è un mistero. Noi siamo nella precarietà come individui. Le cellule del nostro corpo muoiono continuamente. Siamo, invece, nella permanenza personale perché il soggetto, la persona, ha la capacità di stabilire relazioni intersoggettive. La relazione permane anche se l'altro muore o va lontano; si è figli della propria madre sempre, come capacità relazionale, anche se l'individualità cambia. Siccome noi siamo deformati nell'assorbimento dell'apparenza, non diamo peso alla personalità, ma il soggetto è il riferimento di tutte le azioni. Per esempio, è il soggetto che vede, che sente, ecc. servendosi del cervello e degli organi del suo corpo.
Per questo, la resurrezione di Gesù deve aiutarci a liberarci dalle apparenze. Lui si manifesta in luoghi e in modi diversi tanto che la Maddalena non Lo riconosce e Lui non si fa toccare perché non può essere toccato con la stessa mentalità di prima perché sta ormai in una dimensione altra. Se si fosse mostrato allo stesso modo di prima, non avrebbe potuto dimostrare di essere un'altra cosa.
Gesù è il "risorgente". Il Gesù storico è già risorto come primizia della resurrezione del Cristo totale. Ora aspetta la nostra resurrezione.
Dal Vangelo secondo Luca (24,13-35)
[13] Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, [14] e conversavano di tutto quello che era accaduto.
[15] Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.
[16] Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.
[17] Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?".
Si fermarono, col volto triste; [18] uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?".
[19] Domandò: "Che cosa?".
Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; [20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso. [21] Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. [22] Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro [23] e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. [24] Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
[25] Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26] Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". [27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [28] Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. [29] Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.
[30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. [31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.
[32] Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?". [33] E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, [34] i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".
[35] Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Con la premessa precedente, questo brano ora è più comprensibile. Non Lo riconobbero... Com'è possibile dopo essere stati tanto tempo insieme a Lui? Ci sono molti modi di vedere... Anche un cieco può "vedere" degli aspetti che sfuggono ai vedenti.
Noi abbiamo l'intelligenza razionale, quella emotiva e quella sociale. Dovremmo avere la capacità di armonizzarle tutte per essere lucidi. oggi non abbiamo questa lucidità perché ci siamo sviluppati più sulla falsariga della scuola, sul piano cerebrale piuttosto che su quello emozionale per cui si diventa schizoidi.
La fede non può essere definita. E' un fatto esistitivo, non è conoscitivo. E' una dimensione vitale, non divisibile. E' una forma di relazione della persona nel suo totale.
Se fosse un fatto di conoscenza, i teologi dovrebbero avere tanta fede, ma a volte non è così. Invece, si può trovare un ignorante che ne ha tanta.
Non si può sapere chi ha avuto più fede se Pietro o Giovanni, per esempio, perché ciascuno credeva a modo suo. Pietro ha saputo però testimoniare con la vita la sua fede e Giovanni ha scritto il Vangelo, le lettere e l'Apocalisse. Due percorsi completamente diversi...
Che voleva dire San Paolo con la frase: "Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede"? (I Co. 15,17)
Intendeva dire che senza la resurrezione, l'antropologia non avrebbe senso. Nell'esperienza umana è contenuta la fede, strettamente collegata con la speranza.